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James Bradburne (Toronto, Canada, 1955) è direttore della Pinacoteca di Brera di Milano dal 2015, confermato nel 2019

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James Bradburne (Toronto, Canada, 1955) è direttore della Pinacoteca di Brera di Milano dal 2015, confermato nel 2019

L’orgoglio di esserci di nuovo. Bradburne | Brera

ARTPRIDE | Dopo 30 anni di esperienze museali internazionali, il direttore di Brera lancia il suo «Manifesto» personale per una rivoluzione dei musei

James Bradburne

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«Un profondo lamento riecheggia da roccia a roccia, rotola giù per la montagna e sfuma nella lontana oscurità della notte. È un’esplosione selvaggia di sfida, dolore e disprezzo verso tutte le avversità del mondo. Ogni creatura vivente (e forse anche molte di quelle morte) presta ascolto al richiamo. Per il cervo è un promemoria della caducità della carne, per il pino è un annuncio delle zuffe di mezzanotte e del sangue sulla neve, per il coyote è la speranza di racimolare qualcosa, per il mandriano la minaccia di inchiostro rosso sul conto in banca, per il cacciatore una sfida: fauci contro proiettile. Eppure, dietro queste ovvie e immediate speranze e paure si cela un significato più profondo, noto solo alla montagna. Solo lei, infatti, ha vissuto abbastanza da poter ascoltare, imparziale, l’ululato di un lupo. […] Oggi sospetto che proprio come un branco di cervi vive nella mortale paura dei lupi, così la montagna vive nel mortale terrore dei suoi cervi. E forse per un motivo migliore: perché mentre un cervo ucciso dai lupi può essere rimpiazzato in due o tre anni, un rilievo eroso da un numero eccessivo di cervi potrebbe non essere sistemato in altrettante decadi. Lo stesso accade per le mucche. L’allevatore che elimina i lupi dal suo territorio non si rende conto di sopprimere il lavoro del lupo, che consiste nel riportare le mandrie alle dimensioni adeguate all’estensione del territorio: non ha imparato a pensare come una montagna. Ecco il motivo di tutte le nostre terre sterili, e dei fiumi che erodono il futuro trascinandolo verso il mare.

Noi tutti ci sforziamo di ottenere sicurezza, prosperità, comfort, longevità e prevedibilità. I cervi ci provano con le loro zampe flessuose, i mandriani con trappole e veleno, lo statista con la penna, la maggior parte di noi con macchine, voti e dollari, ma in fondo tutto si riduce alla stessa cosa: vivere in pace. In una certa misura, raggiungere questo scopo è più che sufficiente, e forse è una condizione per poter pensare in maniera oggettiva; ma troppa sicurezza, a lungo andare, sembra produrre solo pericoli.
Forse è questo che significa il detto di Thoreau: «Nella natura selvaggia sta la salvezza del mondo». Forse è questo il significato nascosto nell’ululato del lupo, che le montagne conoscono da molto tempo, ma che gli uomini raramente percepiscono».
Aldo Leopold, Thinking Like a Mountain, 1941 (trad. it. Pensare come una montagna, Prato, Piano B, 2019).

Il Covid-19 è una conseguenza della sfida più grande per la sopravvivenza della specie umana: mitigare l’impatto sull’ambiente di una popolazione in continua crescita. Gli effetti della deforestazione, della distruzione degli habitat naturali, l’estinzione di innumerevoli specie, l’inquinamento e il riscaldamento globale hanno condotto l’ecosistema del pianeta terra a un punto critico, quasi di non ritorno. Il Covid-19, conseguenza di un virus che ha fatto il salto da una specie a un’altra che si trovava in pericolosa vicinanza, ha messo in forte evidenza una serie di questioni che, fino a ora, erano state prese in considerazione una alla volta. In modo diretto o indiretto molti problemi che la specie umana deve affrontare sono esacerbati dallo stress a cui è sottoposto l’ecosistema del pianeta: la proliferazione nucleare, le guerre non dichiarate e combattute per procura, la fame nel mondo, la siccità, la piaga delle locuste.

Aldo Leopold, con Ed Ricketts e altri, fu uno dei pionieri di quella che ora chiamiamo ecologia: vedeva la vita sulla terra come un tutto unico e interconnesso, dove modificare un solo elemento può cambiare l’intero sistema. Ora questa riflessione fondamentale pare aver imboccato una corsia preferenziale. Il Covid-19 ci chiede con urgenza di adottare un convinto pensiero ecosistemico. L’ecologia ci ha insegnato che è estremamente rischioso cercare di modificare un solo aspetto di un sistema complesso, e le conseguenze possono essere allarmanti e imprevedibili. Soprattutto, l’ecologia ci mette in guardia sulla vulnerabilità indotta dalla creazione di monocolture di ogni tipo, vegetali e animali ma anche, per estensione, delle società e delle nazioni. Questi ammonimenti hanno un significato più ampio: la chiave della resilienza biologica, sociale e culturale è la diversità, che richiede uguaglianza, tolleranza e inclusione, ma garantisce appunto resilienza, sostenibilità e, in ultima analisi, la sopravvivenza.

La rapida diffusione di questo nuovo Coronavirus, che in un mercato di Wuhan alla fine del 2019 ha fatto il salto da una specie ancora ignota agli umani, ha colto il mondo completamente alla sprovvista, con tante morti ovunque e una forte depressione economica come conseguenza. D’altra parte, in tre mesi il virus è riuscito a ottenere quello che gli attivisti per lo sviluppo sostenibile e contro il cambiamento climatico non erano riusciti a portare a casa in decenni di campagne: ripulire l’aria, ridurre i voli aerei internazionali, rallentare i consumi. Ma quali altre tendenze latenti sono state accelerate dalla crisi da Covid-19? È giunto il tempo di ripensare il nostro stile di vita e le nostre istituzioni economiche, politiche, sociali e culturali.

La riflessione sui musei
Sono impegnato attivamente nel campo museale dal 1981 e nella gestione dei musei dal 1991. Fra le numerose influenze che ho potuto respirare, oltre a quelle dei grandi direttori di Brera, il museo che attualmente dirigo, c’è anche quella dello specialista e critico museale Kenneth Hudson che ebbe modo di dichiarare mestamente «I musei sono diventati vittime dell’equazione “di più = meglio”, e hanno adottato politiche che, ritenevano, gli avrebbero portato i visitatori in più che i loro referenti chiedevano di trovare. Non hanno il coraggio di chiedersi se aspirare a essere sempre più richiesti li porterà a diminuire, o addirittura a distruggere, la qualità».

Sono il direttore generale di un museo statale italiano. Non sono un politico e non ho ambizioni politiche. Non posso neanche figurarmi cosa significhi rifare da zero l’economia globale, o riorganizzare gli affari internazionali. Ma conosco i musei e l’ecosistema in cui operano. Sono anche convinto che, se non si può cambiare il mondo, si può però coltivare il proprio giardino per farlo prosperare, tenendo conto dell’ambiente e delle necessità locali, nonché delle locali bestie da preda. E forse, se ognuno di noi coltivasse bene il proprio giardino, il risultato finale sarebbe migliore rispetto alla velleità di cambiare il mondo dall’alto. La crisi attuale mi consente una volta tanto di raccogliere molte delle questioni, apparentemente separate, con le quali mi sono scontrato per gran parte della mia vita professionale. E in questi mesi di lockdown mi sono chiesto come sarà, o come dovrebbe essere, un museo nel mondo post Covid-19.

È dai tempi delle ricerche per il dottorato, nel lontano 1989, che vado ostinatamente tornando su una serie di temi chiave che accompagnano da sempre la mia vita professionale. Il primo è come trasformare i semplici visitatori (quelli che vengono al museo una volta e basta) in utenti, il cui valore si misura con la voglia che hanno di tornare. Questa convinzione, cioè a dire che una sola visita non basti a giustificare un progetto museale concepito nel corso della Rivoluzione francese nel 1793 come espressione dei valori dell’Illuminismo, porta alla conclusione naturale che i musei esistono per la loro comunità, beninteso definita in senso ampio, e non per i visitatori più o meno casuali che sono il marchio di fabbrica del turismo di massa, nato negli anni Settanta.

Il secondo tema, ispirato dalla mia collaborazione con le scuole materne comunali di Reggio Emilia, è l’importanza dell’apprendimento informale come un continuum unico, che inizia a casa e comprende la visita al museo come componente unitaria, ma fondamentale, della traiettoria di apprendimento che, in teoria, dura per tutta la vita. Questa mia idea è confermata da decenni di ricerca nel campo dei comportamenti dell’apprendimento. Per finire, ho trascorso la mia vita professionale a cercare di aprire i musei a un pubblico sempre più ampio, il più ampio possibile, consapevole che, dei componenti di quel pubblico, qualcuno potrebbe venire al museo ma qualcun altro potrebbe anche non venirci mai.

Dobbiamo avere fiducia: fiducia nella nostra capacità di innovare per sopravvivere, fiducia nella possibilità di creare un mondo che non sia la copia esatta del mondo com’era un anno fa, anche nell’impronta ecologica che lascia. E se, invece di precipitarci a cambiare tutto perché niente cambi, decidessimo che non possiamo accettare di riprodurre il passato com’era prima del Covid-19, se questo significa ripetere gli errori già commessi che ci stanno spingendo sul limitare del baratro dell’estinzione? Kenneth Hudson sosteneva che il museo è più un club privato che una discoteca, che le sue ambizioni devono restare modeste, e la sua salute finanziaria deve essere basata su una base di iscritti o abbonati, gli utenti. Io sostengo che il futuro di un museo è fondato anche sulla sua specificità, ovvero sulle sue collezioni. Come una biblioteca, un museo è una risorsa che dovrebbe servire a un’ampia base di utenti interessati e informati.

Dalla visita all’abbonamento.
Riportare il museo nel cuore della comunità.
Adesso è necessario cambiare completamente il baricentro dell’attenzione, dalla «visita» al museo, ovvero l’esperienza degli oggetti veri e propri nello spazio, all’«esperienza» del museo, ovvero la «valorizzazione» delle collezioni museali, che può avvenire nel museo ma d’ora in poi, come abbiamo imparato durante il lockdown, anche e sempre più online. Entrambe le esperienze sono valide allo stesso modo, e allo stesso modo necessarie e complementari, ma fondamentalmente diverse. L’identità di un museo è stata a lungo confusa con l’identità delle sue collezioni, un errore simile a quello che confonde la musica con lo spartito su cui è scritta. Il valore del museo può essere misurato ma, come dimostrerò, non più in base al «numero dei visitatori», ma a quello degli «abbonati al suo prodotto creativo»: in base a ciò che il museo fa, non a quanto possiede. Il grido di battaglia del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, che auspica la creazione di una Netflix della cultura, non significa semplicemente creare contenuti sui musei, significa creare un modello economico analogo a quello di Netflix, che sostituisca l'acquisto di una visita con l’acquisto di un abbonamento.

Nella percezione di un abbonato a Netflix i film che guarda sono «gratis», proprio come un iPhone è «gratis» se sottoscrivo un contratto da due anni con un gestore di telefonia mobile. Ed ecco che adesso, in un mondo totalmente trasformato dalle conseguenze della lotta contro una pandemia internazionale, è il momento di offrire abbonamenti di varie tipologie invece di vendere biglietti, nel rispetto di tutte le categorie che già da tempo hanno diritto all’ingresso gratuito alle risorse culturali del Paese: bambini, studenti, insegnanti, giornalisti, membri dell’Icom ecc. E anche se un turista internazionale, per vedere una collezione statale, dovrà abbonarsi al museo invece di pagare il biglietto per una sola visita, questo sarà solo il riconoscimento del fatto che quel turista non ha già «pagato» la visita con le tasse. Questo spostamento dell’attenzione dalla visita all’abbonamento ci offre un mezzo per affrontare in modo coerente e sostenibile molte sfide che oggi un museo si trova davanti.

Il cuore della proposta è trasformare la pratica di acquistare un biglietto per vedere le collezioni permanenti in un abbonamento annuale (una specie di iscrizione o, se vogliamo, di associazione) che comprende, come valore aggiunto, l’ingresso gratuito al museo per tutto l’anno, da prenotare online in anticipo. In questo modo l’esperienza di Brera online, che comprende la preparazione alla visita, le attività post visita e gli eventi organizzati durante tutto l’anno, diventa un’esperienza museale a tutto tondo, in cui l'ingresso per vedere le opere in originale è «solo» una delle occasioni, forse la più preziosa. In questo modo le entrate legate agli incassi per la vendita dei biglietti vengono azzerate, e il museo risulta in effetti gratuito per tutti, ma solo se questi tutti diventano parte della comunità del museo. Gli abbonamenti possono essere proposti per fasce diverse e assoggettate alle stesse regole generali dei biglietti, con opzioni per gli abbonamenti famiglia, per i donatori, e così via. Chi ha già diritto all’ingresso gratuito potrà continuare a entrare al museo senza pagare e potrà usare il sito, ma senza acquisire i vantaggi specifici dell’abbonamento, che comprendono l’accesso a contenuti online esclusivi, eventi in diretta streaming, inaugurazioni, conferenze, concerti e altro. Anche gli eventi potranno generare entrate, benché per ora siano limitati dalle restrizioni sugli assembramenti, offrendo un accesso esclusivo combinato con dirette in streaming dedicate agli abbonati. Discostandosi dalla visita una tantum come unica misura della qualità, il museo può concentrarsi sulla sua missione culturale precipua: trasformare i visitatori incoraggiandoli a rimanere più a lungo e a vedere molto più di quanto vedessero prima negli oggetti delle collezioni permanenti.

Da un lato, nel mondo attuale post Covid-19 la visita al museo in presenza è più preziosa che mai, com’è naturale che sia, e l’arte di osservare con lentezza è imprescindibile per cogliere il massimo valore dall’opportunità di vedere un’opera in originale. La preparazione alla visita è ancora più importante di prima e certe provocazioni, come per esempio lo stile delle didascalie che incoraggiano i visitatori a guardare più da vicino, e a vedere di più, diventano fondamentali come mai prima. Lo psicologo americano Abraham Maslow lo aveva intuito, non dimentichiamolo: il visitatore si deve sentire al sicuro, rispettato, incluso e tranquillo, e alla fine o all’inizio di una visita deve poter consumare qualcosa al caffè. Il museo adesso ha l’opportunità di ripensare completamente il suo rapporto con la comunità, integrandosi nella vita economica e culturale di questa grazie al sostegno reciproco. Proprio come i ristoranti, che si stanno dedicando sempre più al cibo da asporto, allo stesso modo il museo deve trovare modalità con cui la comunità può ordinare l’esperienza museale da portarsi a casa.

Dall’altro lato, seguendo questa linea di pensiero ci rendiamo disponibili a offrire un’esperienza museale online in tutto simile a quella nel museo fisico e, come quella, potenzialmente in grado di trasformare chi ne fa esperienza. Confrontiamo l’esperienza di guardare un film con quella di visitare un museo. Un film ha una durata limitata e prefissata, mentre la durata della visita a un museo è variabile. Un film è lineare e, spesso, narrativo, mentre un museo non è lineare e spesso neanche narrativo. Un film controlla esplicitamente i picchi di maggiore emotività, un museo si affida a incontri casuali, spesso con altri visitatori. Per contro, l’impatto emotivo verso un film è molto personale, mentre l’esperienza museale è profondamente sociale. Un film è come fare un giro a Disneyland, ogni passo del percorso è pianificato in anticipo e controllato; una visita al museo è come una passeggiata nel parco: piacevole, rilassata e piena di scoperte inaspettate.

Come far sì che l’esperienza online di un museo, nello spazio digitale, funzioni da esperienza veramente trasformativa? Quando durante il lockdown abbiamo condiviso la nostra solitudine, ci siamo in realtà avvicinati gli uni agli altri molto più di prima dal punto di vista sociale e, imparando ad abitare spazi virtuali condivisi, siamo forse riusciti a conoscerci un po’ meglio. Questa lezione ha una conseguenza importante per il lavoro in campo museale: imparando a vivere negli spazi virtuali, comprendendone i limiti ma anche le opportunità, possiamo forse per la prima volta riuscire immaginare come dovrebbe essere una vera esperienza museale virtuale.

Per la prima volta dobbiamo accettare che il museo virtuale (se davvero deve avere un valore, in termini di trasformazione, ispirazione ed educazione, confrontabile con quello di una visita al museo reale) abbia un valore pari ma diverso rispetto al museo fisico. Benché l’uno possa completare l’altro, i due non sono mai interscambiabili. La conseguenza imprevista della crisi da Covid-19 è stata incoraggiare la discussione sul potere effettivo dell’esperienza online e contemporaneamente, soprattutto con le attuali limitazioni sulla capacità degli spazi fisici dei musei, consentirci di restituire magia alla visita museale di persona, in loco. La necessità della prenotazione online (per evitare code e affollamenti) significa che i visitatori possono prepararsi alla visita in modo nuovo.

Acceleriamo il cambiamento
La crisi attuale sta accelerando mutamenti che già erano importanti nel nostro stile di vita. E tuttavia questi cambiamenti non dipendono dalla crisi, e non si fermeranno quando la crisi sarà passata. Mentre prima del Covid-19 chiunque poteva arrivare al museo, fare la coda, comprare il biglietto ed entrare, adesso questo non è più possibile. Le visite nate sull’ispirazione del momento vengono scoraggiate perché potrebbero portare ad assembramenti imprevisti di troppe persone; i pagamenti in contanti vengono scoraggiati perché a rischio infezione e le pur necessarie barriere fra il personale di biglietteria e il pubblico fanno sì che acquistare i biglietti diventi un’esperienza inutilmente spiacevole; l’accelerazione verso una società senza contanti e munita di strumenti contactless si sposa con l’accettazione sempre più diffusa dei pagamenti online.

Rendendo obbligatoria la prenotazione online si eliminano il rischio di sovraffollamento e uno dei possibili motivi di contagio, e per la prima volta si crea un momento in cui il museo può, almeno in potenza, preparare tutti a trarre il meglio dalla visita. Per la prima volta, il primo contatto di una persona con il museo coinciderà con l’inizio della sua esperienza museale.

Fatto impensabile ante Covid-19, ora ogni persona che vuole venire al museo (per la prima o per la decima volta) deve prenotare online l’ingresso. Oggi la visita inizia a casa, non al portone del museo, e la persona può arrivare preparata, informata e curiosa. La visita in sé diventa ancora più preziosa e, più di prima, c’è la possibilità che lasci un’impressione indelebile. Una pratica che potrebbe diventare «the new normal» anche quando la crisi sarà conclusa da tempo.

È arrivato il momento per i musei di ridurre drasticamente la loro impronta ecologica, di immaginare come adattare gli orari di apertura per rispondere ai bisogni del pubblico locale e, allo stesso tempo, di aumentare in modo significativo la qualità delle loro produzioni online per soddisfare le richieste di chi desidera l’esperienza museale ma non ha bisogno (o per qualche motivo non può permettersi) la presenza dell’oggetto fisico. Il museo potrebbe aprire quando i suoi utenti vogliono e possono visitarlo. I gruppi scolastici e comunque i gruppi organizzati potrebbero essere programmati la mattina. Le aperture serali potrebbero offrire l’esperienza museale al pubblico più giovane. Aprendo i musei nove ore al giorno invece che undici, il personale che attualmente viene impiegato per la sorveglianza, ma che in realtà si occupa di altre funzioni, potrebbe essere riassegnato stabilmente alla comunicazione, alle attività educative, alla catalogazione, rafforzando le competenze del museo senza nuovi costi.

I musei non sono mai gratuiti, le visite sì
Molti ostacoli alla fruizione del museo, a considerarlo la nostra «grande casa» in cui conserviamo tutti i tesori che non possiamo permetterci di possedere individualmente, sono invisibili. In ultima analisi i musei non sono mai gratuiti. La questione è una sola: chi paga per i musei, come paga e quando paga. La lunga tradizione dell’ingresso gratuito nei musei nazionali inglesi non viene dalla convinzione che i musei debbano essere «gratuiti», ma dal riconoscimento che i musei nazionali appartengono ai cittadini dello Stato, che hanno già pagato la loro parte, come dice Kenneth Hudson, «con le tasse». E in effetti il turismo di massa ha messo in seria crisi la politica dell’ingresso libero, poiché la maggioranza dei nuovi visitatori erano turisti che non contribuivano a sostenere i musei con le tasse (nel caso della BBC, un altro servizio «gratuito», il dilemma è stato risolto inserendo la pubblicità sulle piattaforme del broadcaster che non vengono usate dai contribuenti britannici). Un abbonato a Netflix non paga per ogni film: paga per poterli vedere tutti.

Per il 2021 e per gli anni a venire, la crisi da Covid-19 ci offre l’impulso per un ripensamento completo del piano aziendale di un museo. Anche nell’ambito delle leggi e dell’impianto normativo in vigore è necessario proporre un nuovo modo per la fruizione museale, basato sulla comunità, in cui la visita in sé è inserita in una traiettoria culturale completa, invece di essere l’aspetto dominante o unico. In effetti questo consentirebbe a Brera di portare a compimento l’ambizione, dichiarata nel 2015, di trasformare i visitatori in utenti. Paradossalmente, la crisi ci ha offerto la chiave per sbloccare molte questioni irrisolte nella relazione del museo con la società in cui vive, nello spirito dell’ultimo grande direttore di Brera, Franco Russoli, morto prima dell’inizio del turismo di massa e del proliferare dei voli aerei internazionali.

Un piano aziendale post Covid-19 dovrebbe puntare a: 1) ridurre i costi generali di funzionamento, soprattutto individuando nuove modalità lavorative per i dipendenti all’interno del contesto museale, e 2) trovare nuove fonti sostenibili di finanziamento che possano coprire una percentuale importante dei costi generali di funzionamento, arrivando almeno al 35% nell’arco di cinque anni (il 65% di costi per il funzionamento di un museo statale a carico dello Stato è del tutto plausibile, stante la sua responsabilità di conservare, fare ricerca e valorizzare il patrimonio nazionale). In conclusione, un nuovo modello di business incentrato sugli abbonamenti non sarebbe solo sostenibile ma restituirebbe museo e biblioteca di Brera alle loro origini comuni di libere risorse a disposizione dei cittadini italiani, sostenute dalle tasse e dalla partecipazione diretta di quegli stessi cittadini. Come conseguenza secondaria, questo approccio sarebbe l’esempio concreto di come un museo italiano possa diventare una Netflix della cultura non solo quanto a produzione di contenuti, ma anche quanto a fattibilità economica. La radicale trasformazione dell’economia globale innescata dalle misure di contenimento del virus adottate dai governi ha creato nuove occasioni, e sarebbe una vera disdetta se non riuscissimo ad approfittare di questo momento eccezionale per riparare, almeno in parte, il danno fatto negli ultimi cinquant’anni dal turismo di massa.

Gli italiani avranno questo coraggio?
La vera questione è se, come comunità museale, come museo statale italiano, come Ministero e come Paese, abbiamo il coraggio di proseguire lungo la strada della riforma avviata nel 2014 e cogliere la crisi attuale come un’opportunità per dare al museo e alla biblioteca basi nuove, sostenibili, socialmente responsabili. Di sicuro questo è il momento perfetto per un cambiamento radicale, e l’Italia deve essere pronta a rinnovarsi e a puntare sulla cultura in maniera diversa.
Solo il tempo ci dirà se le istituzioni culturali saranno all’altezza della sfida: il nostro futuro dipende dall’essere capaci di pensare come pensa la montagna di Aldo Leopold.

L’orgoglio di esserci di nuovo. Bradburne | Brera
L’orgoglio di esserci di nuovo. Piotrovskij | Ermitage
L’orgoglio di esserci di nuovo. Martinez | Louvre
L'orgoglio di esserci di nuovo. Falomir | Prado
L'orgoglio di esserci di nuovo. Bradburne | Brera |  2
L'orgoglio di esserci di nuovo. Schmidt | Uffizi
L'orgoglio di esserci di nuovo. Jatta | Vaticani

James Bradburne (Toronto, Canada, 1955) è direttore della Pinacoteca di Brera di Milano dal 2015, confermato nel 2019

James Bradburne, 29 giugno 2020 | © Riproduzione riservata

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